Email marketing: riflessioni

#1
Fatto salvo di non aver approfittato della pazienza dei vostri iscritti, non abbiate timore del tasso di disiscrizione: entro certi limiti (effettivamente difficili da calcolare) si tratta di una maniera efficace di pulire la vostra lista di iscritti e proseguire le attività di email marketing verso un pubblico via via di sicuro più interessato ai vostri contenuti.

#2
Abbandonate l’idea di voler inviare sempre e comunque la vostra comunicazione via email a tutti gli iscritti: poiché ne avete la possibilità, segmentate. Risvolti positivi su quality score (ereditando l’etichetta da Google AdWords ed appiccicandola a Mailchimp), spam score, tasso di disiscrizione, efficacia delle attività di analisi qualitative.

#3
Email marketing non significa solo traffic acquisition! Nonostante il player sia affermato, penso che questa mail di Klout sia una forzatura (vedi immagine qui sotto): dall’oggetto capisco che il mio Klout Score è cambiato e quindi, nella mail, mi aspetto di vedere il numero aggiornato non di dover accedere al sito (magari loggarmi pure) per vedere che sono passato da 59 a 60 (wow!).

Klout Score Email Marketing

Personalmente (e a livello aziendale) penso che l’email marketing sia un ottimo canale anche per alimentare una strategia di content marketing: mi piace intendere questo mezzo come l’opportunità per raccontare. E a volte è più che sufficiente.

Ecommerce: do it yourself

La promozione online è un asset importante per un’azienda.
Se poi questa vende su internet, allora diventa vitale.
Vedo però ancora tanti contesti dove, forse perché assuefatti dalla materia, siamo più concentrati sulle KPI specifiche delle nostre attività di supporto alle aziende e perdiamo il focus sull’unico vero indicatore: la vendita.

Questa riflessione mi è stata stimolata anche da un dialogo avuto con una commerciante in Sicilia.

IO: Vendete online?
LEI: No. Abbiamo il sito web ma non c’è il classico carrello. Siccome sono cose artigianali fatte a mano, quando vendo un oggetto dovrei aggiornare il sito circa la disponibilità e non ho tempo.
IO: Ma sono di Treviso, come possiamo fare? La spedizione mi sarebbe effettivamente comoda per evitare di trovarmi il regalo frantumato in pezzi una volta aperta la valigia.
LEI: Guarda, fai così: fai una foto qui in negozio all’oggetto che vuoi, me la mandi via email e poi ci mettiamo d’accordo sul prezzo e la spedizione.

L’importante è vendere.
Potrebbe andare meglio, ma va bene.

Cose di marketing viste in giro

Fonte d’ispirazione: il viaggio di nozze in Sicilia. :)

#1
Parole chiave: nicchia, di necessità virtù, copy efficace

Tetto Marco

 

#2
(disclaimer: l’attenzione è stata attirata, in realtà, da quello che secondo me è un utilizzo discutibile dell’inglese nel contesto italiano)
Parole chiave: mobile + gamification + instant win + foot traffic acquisition (bravi!)

Bella Blu Shake App

Customer care per ecommerce: è dura, ragazzi!

Vorrei fare una riflessione sul customer care per gli ecommerce o, più in generale, per i siti che vendono qualcosa online.

Partiamo da un assunto: l’ecommerce è un trend. Affermato ed attuale. Sia in termini di acquisti che di vendite.
Sempre più persone acquistano online; tra queste ci saranno sia i primissimi nativi digitali che gli utenti più adulti, relativamente nuovi all’online, che hanno alle spalle anni ed anni di esperienze di acquisto (più in generale, di commercio) nel tradizionale.

Vorrei riflettere sul servizio/assistenza clienti focalizzandomi proprio su quest’ultimo segmento di utenza.

Lo faccio collegandomi ad un post scritto qualche tempo fa (qui) dove indicavo che una delle leve per la conversione da offline ad online era l’aver meno a che fare con i clienti; forse per una ragione di mancanza di contatto e di standardizzazione di flussi: mi mandano una mail e mi preparo la parte le risposte alle “solite domande” così me la sbrigo velocemente.
Niente di più sbagliato!

Niente di più sbagliato perché il segmento di cui sopra sarà portato alla massima creatività (la maggiorparte delle volte atta ad ottenere uno sconto) alla quale il CMS/gestionale di turno non sa reagire; ci si ritroverà quindi a dover improvvisare all’interno di un ecosistema che, fisiologicamente, ha dei paletti: si utilizzeranno “impropriamente” i codici sconto, probabilmente si passerà ad un canale più elastico (email, telefono), si soffrirà di deja vu delle medesime colorate dinamiche del buon vecchio tradizionale; ma con un pacco di interlocutori in più.

Quindi, in merito alla conversione, che si faccia.
Ma che ci si faccia anche una pensata prima.

Digressione pensando invece ai nativi digitali: se come canali di assistenza si indicano email, telefono, Skype, Twitter e Facebook, nel momento in cui il cliente ne sceglie uno è necessario mettersi nelle condizioni di risolvere la questione (il ticket) senza far abbandonare il canale scelto evitando così di far rimbalzare il povero consumatore da un mezzo all’altro; se invece (ahimè) succede, le strade alternative sono due: (1) assumere personale (2) lasciare attivi solo i canali dove davvero si è in grado di dare assistenza.

La libido della web analytics

Non parlerò di web analytics.
Però del web analyst.

Tra le mansioni c’è sicuramente quella di scavare in profondità per trovare, interpretare, intercettare; i miei preferiti sono quelli che dalla lettura dei dati riescono a ricavare e descrivere un comportamento dell’utente.

Ma tra le attività c’è sicuramente anche quella della rendicontazione: non tanto in termini di lettura del dato (anche) quanto in termini di individuazione del dato; in altre parole, una responsabilità del web analyst è quella di comporre il report in funzione degli obiettivi e, altrettanto fondamentale, dell’interlocutore (che magari sono più d’uno collocati a livelli diversi dell’organigramma aziendale).
Spesso nelle aziende nessun referente ha un know how troppo profondo su queste tematiche da giustificare report di pagine e pagine, numeri e numeri (spesso si ottiene l’effetto contrario: confusione e frustrazione); un web analyst professionale, secondo me deve essere in grado, con pochi semplici numeri, di rispondere alla domanda Come sta andando? avendo di fronte una persona che non mastica la materia e che non concede troppi minuti.

Per tornare al titolo dell’articolo, l’analista deve mettere in cantuccio la libido. La libido dell’individuazione, dell’interpretazione corretta. O meglio ancora la libido dell’aver unito i puntini e srotolato un ragionamento complesso.
Il web analyst, dal mio punto di vista, dovrebbe comunque riassumere tutto in poche, efficaci e parlanti metriche e, al limite, dare sfogo alla propria soddisfazione da qualche altra parte (parlavo di un blog o un forum, eh! :P ).

Ricerca di app mobile negli store. E SEO.

Credo al SEO negli app store (iTunes Store, Google Play).
Ci credo anche sulla base della consapevolezza che, in questa specifica materia, non potendo assegnare un peso certo alla singola variabile dell’algoritmo vale la regola del tutto fa brodo.
Ci credo perché spero che un domani l’algoritmo migliori (anche se già oggi è meglio di ieri).
Ci credo ancora di più perché sto per descrivere un comportamento tipico ma so che rappresentare tutta la popolazione con un unico flusso sarebbe un errore sciocco.

Eccoci al flusso.
Se per risolvere un’esigenza si deve cercare un’app senza averne in mente una in particolare di già conosciuta, secondo me la maggior parte delle volte si finisce su Google a scrivere “qualcosa + app/iphone/android” (concedetemi la semplificazione).
Se proprio proprio poi non si clicca su uno dei risultati disponibili (spesso proprio i link agli store), lo step successivo solitamente prevede la ricerca per il nome dell’app nell’iTunes Store ereditando l’informazione dal passaggio prima.

Non credo quindi che, con l’attuale efficenza dell’algoritmo degli store (scarsa), oggi la ricerca all’interno di essi (quindi il SEO per gli app store) sia un aspetto sul quale focalizzarsi troppo (in termini economici e di tempo).

Che ne dite? Ho preso un abbaglio? Avete mai cercato, negli store, per parole chiave generiche senza, al massimo, aver prima navigato per categorie?

BONUS TIP (a metà)

Credo invece che sia molto interessante, con la consapevolezza del flusso di cui sopra, finire tra i risultati di ricerca altrui. Ma mi fermo qui, non dicono nulla di più. :P

Now you know

Mi ritrovo sempre più spesso a parlare di content strategy o content marketing o inbound marketing.
E mi piace un sacco.
Facendo l’esercizio di simulare il comportamento dell’utente, assieme all’interlocutore di turno giungiamo sempre più spesso alla conclusione per cui, effettivamente, le cose sono cambiate: oggi, per farmi una fotografia di chi sei, passo in maniera imprescindibile anche per quello che dai e che dici.
Quando l’azienda comprende il concetto, non ve lo nascondo, provo un attimo di soddisfazione.

Poi però torno alla realtà delle risorse, dei numeri, del denaro, della rendicontazione e del ritorno.
Insomma, dell’azienda.
La metafora che utilizzo per descrivere questo approccio al contenuto è quello della semina: producendo e distribuendo online dei contenuti siamo certi solo del fatto che stiamo, appunto, seminando; circa il raccolto, e nello specifico il quando ed il quanto, un po’ bisogna accettare che è difficile fare delle proiezioni e che quindi i concetti di misurazione e rendicontazione un po’ si allontanano.

Rimane quindi un lusso, dal mio punto di vista, mettersi nell’ottica di approcciare il proprio mercato con una strategia volta a produrre contenuti.
Lusso perché bisogna chiudere un occhio sull’immediato ritorno, sull’investimento a breve termine e sulla misurazione precisa.

Però che bello quando le aziende, consapevolmente, si prendono finalmente questo lusso.
I mercati sono conversazioni. Hanno detto.

La prima impressione. Conta.

Considerazione banale. Ahimé ancora poco diffusa.
La prima impressione conta; che si tratti di un nuovo progetto o che sia la prima volta che l’utente “tocca” il progetto stesso (sito o app non importa).

Un’app non può fallire il processo di registrazione/autenticazione con il Facebook Login di turno.
Un sito web che desidera aiutare i cittadini ad individuare i “migliori servizi” nella loro area dovrebbe stringerlo fin da subito un accordo di partnership con almeno tutte le province d’Italia (in questi frangenti non è possibile finire davanti al messaggio Nessun risultato nella tua zona; con quale speranza payoff e mission sperano di poter risultare ancora credibili?!).

Va benissimo l’approccio alla “Rework“, l’abbiamo adottato anche noi, ma dei requisiti minimi a livello qualitativo sono richiesti, sono obbligatori; la difficoltà è che questa asticella/barriera di soddisfazione è sempre più alta e continua a crescere.

Dai, ti faccio un prezzo amico

Forse tutto nasce dal mio (brutto) rapporto con il concetto di prezzo ed in particolare con le sue tonalità di decurtazione.
Ed anche se questa volta mi metto dallo stesso lato del consumatore, non riesco a digerirla.

Sto parlando del prezzo amico.
Quello che ti fanno la prima volta che ti vedono perché, a pelle, gli stai simpatico.
Quello che, quando esci, un po’ ti gasi perché gli stai simpatico.
Quello che forse, la prossima volta, ti ci fa pure tornare.
Da quello che gli stai simpatico.

Non so, ma non ce la faccio a non guardarlo con disprezzo, a non sentirmi preso in giro.
Però con stile. In simpatia.

Chiamala soddisfazione. Chiamala esperienza utente. Basta che ci pensi.

Dico una banalità: oggi il consumatore è cambiato.
E’ attento, consapevoli dei mezzi e del suo potere, è esigente. Esigente.

La soddisfazione è diventata, perfino, un fattore tenuto in considerazione in chiave SEO per quello che concerne la visibilità sui motori di ricerca.

Soddisfazione quale fattore SEO

(clicca qui per approfondire l’articolo twittato)

Quando si progetta una qualsiasi esperienza online si deve pensare all’utente.
Ad un utente che esige ed è pronto ad abbandonare la strada vecchia per quella nuova.
Un approccio di questo tipo è vincente.
Se non siete d’accordo, vedetela così: l’approccio contrario è sicuramente perdente.

In questo piccolo esempio, sono consapevole di non essere un campione rappresentativo dell’intera popolazione, però ci sono state un paio di settimane durante le quali ho raccolto qui e là tracce di un’insoddisfazione nei confronti di foursquare che stava accusando rallentamenti appesantendo notevolmente l’esperienza utente.
Il piccolo campione con il quale mi sono confrontato è stato spietato: dopo poche ore avete già iniziato ad utilizzare meno l’applicazione arrivando a dichiarare cose del tipo basta, mi sono rotto, non la utilizzo più.

Questa volta chiudo con quella che potrebbe essere l’apertura di un prossimo post: ci sono applicazioni e progetti che raggiungono invece livelli superiori e che possono permettersi di non pensare troppo all’utente (pensate alle peripezie ed alle evoluzioni dell’app di Facebook per iOS). Chissà qual è il termine marketing che rappresenta queste eccezioni.